“Bevevamo a Garganella” è il racconto di un viaggio particolare: un viaggio di “ritorno” in una città di provincia, vociante di umanità e non di motori, in un mondo di cinquanta anni fa. Ritrovare i luoghi, i personaggi, gli strumenti e i momenti che definirono un modo di vivere scomparso, lentamente ma inesorabilmente.
Il racconto si apre con un “cappello” nel quale l’autore prima si presenta, poi si descrive; spiega il motivo di questa “fatica” letteraria ed infine indirizza il lettore ad una lettura “critica”.
Curioso l’accostamento dei ricordi, con la teoria della “non conoscenza” propugnata dal regime del Grande Fratello nel libro di G. Orwell, dove ricordare il passato era reato e punito con la pena capitale!
L’autore rievoca alcuni frammenti della propria esistenza, da come si viveva in famiglia, alla cucina semplice, ma sostanziosa, con la pasta fatta in casa al centro delle abitudini culinarie, alla scuola, al periodo delle vacanze estive, di quando ci si dissetava alla cannella della fontana in piazza, di quando in piazza si giocava a pallone fino all’oscurità, delle birichinate sulle strade a suonare i campanelli delle abitazioni per poi scappare via di corsa, degli oggetti che via via sono diventati obsoleti.
In seguito venne la stagione della “contestazione” e gli scenari iniziarono a cambiare e così come l’infanzia cedeva il passo all’adolescenza, anche il mondo mutava e nuovi vocaboli di una nuova lingua apparivano.
L’autore ci descrive come, parole all’apparenza neutre, nascondessero realtà inquietanti. Qui si inserisce la critica a questo mondo “moderno” e ad un nuovo potere, meno visibile ma quotidianamente presente e opprimente.
Il racconto si chiude con una riflessione allarmata e angosciante pur senza lasciarsi coinvolgere nella facile mitizzazione del “passato che fu”.